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martedì 10 aprile 2012

Libero arbitrio e scelte

Quanto siamo responsabili del nostro agire? Questo è l'eterno dilemma del libero arbitrio: quanto siamo veramente liberi di scegliere consapevolmente quello che facciamo e quanto possiamo modificare i comportamenti.

Questa volta lo spunto di riflessione nasce da un articolo di Luca De Biase pubblicato da IlSole24ore  riguardante l'utilizzo delle neuroscienze nelle aule del tribunale per giustificare il comportamento delittuoso, ramo della scienza definito Neuropsicologia Forense (link al libro). 

Nell'articolo vengono citati diversi libri, tra cui il più recente è "Il delitto del cervello. La mente tra scienza e diritto" di Andrea Lavazza, scienziato cognitivo, e di Luca Sammicheli, giurista e psicologo (lo trovi su amazon in versione cartacea o in versione elettronica)

Quanto il nostro comportamento è volontario, quanto è guidato dall'istinto, quanto è influenzato dalla configurazione biologica del nostro cervello? Ovvero quanto le caratteristiche su base genetica del nostro cervello determinano il comportamento?

Questi interrogativi hanno conseguenze non solo giuridiche, ma anche morali ed etiche, e quindi filosofiche e religiose. Nell'ambito della neuropsicologia forense si cerca di trovare metodologie "obiettive" per stabilire quanto sia possibile determinare la piena consapevolezza quando si compie un atto criminale o quanto non si potesse agire diversamente da come si è agito.

Se da una parte abbiamo il cervello come organo geneticamente determinato, oggi sappiamo che non è un organo statico, ma plastico che cresce e si trasforma, non solo in senso degenerativo: allenamento mentale, ambiente, sostanze ed educazione sono i principali fattori di cambiamento della struttura del cervello.  Imparare qualcosa trasforma il cervello cambiando le sinapsi, cioè i collegamenti neuronali.

Però attenzione: se da una parte le neuroscienze riescono a stabilire dove avvengono determinati processi nel cervello (mappatura cerebrale), siamo ancora distanti dal definire strutturalmente la coscienza e cosa sia esattamente il pensiero:  in termini forensi abbiamo il dove ed il quando, ma ci manca il come ed il perchè.

Anche la psicoterapia è influenzata da queste riflessioni.

Diversi autori hanno trattato l'argomento. Ad esempio David Shapiro in "Stili nevrotici (Psiche e coscienza)" nel descrivere la struttutra del pensiero nevrotico pone la riflessione sul fatto che l'individuo nevrotico non può non pensare diversamente da come pensa.

Riflessioni del genere pongono interrogativi sia sul tipo di psicoterapia, ma anche sull'obiettivo della psicoterapia e di quali soluzioni è possibili prospettare alla persona e quali obiettivi è realistico perseguire.

L'ipnosi dove si colloca in tutto questo ragionare?

Se da una parte l'ipnosi non può essere usata in Tribunale principalmente perchè è impossibile distinguere tra immaginazione e ricordi (entrambi producono immagini mentali) basandosi solo sul resoconto verbale, dall'altra l'ipnosi rappresenta uno strumento per stimolare la persona a cercare nuove alternative e nuove soluzioni. L'ipnotista però è consapevole che il fattore biologico è determinante e va tenuto con la dovuta considerazione, sia in termini di limiti, ma anche in termini di potenzialità.

L'ipnosi infatti utilizza la funzione naturale della trance per favorire il cambiamento nella persona.

Con l'autoipnosi la persona impara ad utilizzare autonomamente la propria capacità di indursi volontariamente uno stato di trance e di concentrazione favorevole per realizzare il proprio obiettivo.

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